IQNA

GAZA. Rachel Corrie e i diritti umani

15:34 - March 17, 2017
Notizie ID: 3481447
Iqna - Quattordici anni fa, il 16 marzo del 2003, Rachel Corrie, attivista statunitense dell’Ism, veniva travolta e uccisa da un bulldozer israeliano. Per lei nessuna giustizia

GAZA. Rachel Corrie e i diritti umani


"Sono a Rafah. Una città di 140mila persone, il 60% delle quali sono profughi – molti già due o tre volte. Al momento, l’esercito israeliano sta costruendo un muro alto dodici metri tra Rafah e il confine.602 case sono state completamente rase al suolo dai bulldozer e il numero di quelle parzialmente distrutte è ancora più alto. […] La presenza di noi volontari internazionali oscilla tra le cinque e le sei persone.C’è la richiesta di una presenza notturna costante per fare la guardia a un pozzo nella periferia di Rafah, visto che i due pozzi più grandi sono stati distrutti la settimana scorsa”, scriveva nel suo diario* Rachel Corrie nel febbraio del 2003, a due settimane dal suo arrivo in Palestina.

Fu proprio nel tentativo di difendere con il proprio corpo una casa palestinese dalla demolizione, il 16 marzo 2003, che la ventitreenne attivista statunitense dell’International Solidarity Movement veniva schiacciata da un Caterpillar israeliano D9-R.

Per circa tre ore prima della sua uccisione, gli attivisti dell’Ism avevano tenuto sul posto una protesta pacifica contro le demolizioni.L’esercito israeliano, impegnato in quel periodo nella creazione di una buffer zone sul confine tra Israele e la Striscia di Gaza, demolì e rase al suolo, tra il 2000 e il 2004, migliaia di abitazioni palestinesi.Durante le regolari escursioni notturne e senza preavviso, le forze israeliane usavano bulldozer per radere al suolo abitazioni al confine del campo di rifugiati di Rafah.

Rachel Corrie raccontava ai suoi genitori e nel suo diario delle difficoltà quotidiane, dei bambini uccisi – a tre anni dall’inizio della seconda Intifada, almeno 400 minori furono uccisi dall’esercito, di cui quasi la metà tra Rafah e Khan Younis, uno su quattro di età inferiore ai 12 anni e non tutti mentre erano in corso combattimenti, secondo rapporti di organizzazioni per i diritti umani – della distruzione dei pozzi e delle forniture di acqua e dei mezzi di sussistenza, dell’assedio ma anche della dignità degli abitanti.

Quel giorno di marzo, durante le operazioni di demolizione, Rachel Corrie e gli altri attivisti internazionali indossavano come di solito un giubbotto arancione fluorescente per essere riconoscibili e si rivolgevano ai soldati con megafoni, restando di fronte ai bulldozer diverse ore per impedire loro di distruggere le abitazioni.

La giovane, secondo fotografie e testimonianze, si era interposta tra la casa e il bulldozer, il cui operatore continuò ad avanzare, mentre un mucchio di terra spinto dal mezzo militare continuava a crescere; per non cadere, Corrie salì su quel mucchio rendendosi visibile all’autista, ma il bulldozer non si fermò, schiacciandola.Contrariamente da quanto riportato dalle testimonianze, il soldato alla guida affermò di non averla vista. Joe Carr, attivista statunitense Ism presente sul posto, riferì che Rachel Corrie aveva iniziato a agitare le braccia e a gridare, così come avevano fatto gli altri attivisti chiedendo al bulldozer di fermarsi.

I risultati dell’autopsia, inizialmente negati al pubblico da Israele, non fecero che confermare le cause della sua morte, rivelando che era stata causata da "pressione sul torace (asfissia meccanica) con fratture delle costole, delle scapole e delle vertebre della colonna vertebrale”.

I lunghi procedimenti giudiziari, il diritto alla verità e la giustizia negata.Il processo per la sua morte ebbe inizio nel marzo 2010, dopo due anni e una quindicina di udienze lo Stato si autoassolse: nel febbraio 2012 un tribunale di Haifa stabilì che non vi era alcun colpevole, Rachel Corrie era morta "per sbaglio”, si era trattato di un "tragico incidente”, di cui lei stessa era colpevole, perché "qualsiasi persona di buon senso avrebbe lasciato l’area”.

Il giudice Gershon concluse che, siccome Rachel Corrie mise se stessa in una situazione di pericolo, doveva essere ritenuta responsabile per la sua stessa morte.Il suo comportamento e degli altri attivisti fu definito "illegale, irresponsabile e pericoloso”.La sentenza del tribunale di Haifa esentò così Israele dal pagamento del risarcimento danni poiché l’incidente sarebbe avvenuto in "area militare chiusa”.

La sentenza stabilì inoltre che il conducente del bulldozer non poté vedere Rachel Corrie e non l’avrebbe investita intenzionalmente. Un duro colpo per la famiglia della giovane volontaria, il cui avvocato aveva presentato prove e testimonianze sulle responsabilità dell’autista che smentivano le affermazioni secondo cui non avrebbe visto l’attivista.

Una sentenza che rappresentò, per gruppi per i diritti umani, un "pericoloso precedente” riguardo la protezione dei civili in guerra, perché esentava l’esercito dall’obbligo di rispondere delle proprie azioni se avvenute in operazioni di combattimentoe che metteva seriamente a rischio la vita degli attivisti internazionali, sentiti sempre più da Tel Aviv come una seccatura da tener lontano.

"Il verdetto, che non ci sorprende, è ancora un altro esempio di impunità che prevale sulla responsabilità e sulla giustizia e uno schiaffo al principio fondamentale del diritto umanitario internazionale – secondo cui in tempo di guerra, le forze militari sono obbligate a prendere tutte le misure necessarie per evitare di colpire civili e le loro proprietà”, disse l’avvocato Hussein Abu Hussein dopo l’udienza di Haifa.L’ex presidente Usa Jimmy Carter affermò: "La decisione della corte conferma un clima di impunità, che agevola le violazioni israeliane dei diritti umani sui civili palestinesi nei Territori Occupati”.

Rachel Corrie non fu da allora l’ultima vittima internazionale. L’11 aprile del 2003, a meno di tre settimane dal suo assassinio,Tom Hurndall, fotografo e attivista pacifista inglese dell’Ism fu ucciso con un colpo alla testa da un cecchino israeliano e morì dopo nove mesi di coma. A distanza di meno di un mese, il 2 maggio del 2003,James Miller, un cameraman inglese, fu colpito da una pallottola e ucciso a Rafah. L’ ordine di "sparare per uccidere” venne ritenuto accettabile in violazione del diritto umanitario internazionale, secondo cui i soldati devono distinguere tra combattenti e civili.

L’ultimo atto dei lunghi procedimenti giudiziari ha avuto luogo due anni fa, a febbraio del 2015, quando l’Alta Corte Suprema israeliana ha rigettato l’appello presentato nel maggio 2014 dalla famiglia Corrie contro la sentenza della corte distrettuale di Haifa.

La sentenza ha esentato l’allora ministro della Sifesa israeliano Shaul Mofaz – denunciato dalla famiglia Corrie per omicidio volontario e negligenza – dalla propria responsabilità per le azioni commesse dal suo esercito, azioni ritenute "attività in tempo di guerra” ma il ministro ha rifiutato di valutare se quelle azioni abbiano violato le leggi applicabili durante un conflitto armato, ha affermato l’organizzazione statunitense Human Rights Watch.

Un’immunità di fronte a cui i genitori di Rachel Corrie non demordono e continuano a combattere per la giustizia, con la consapevolezza che si tratta di una battaglia ancor più dura per le tante famiglie palestinesi che devono lottare anni per accedere ai tribunali o che non avranno mai la possibilità di intraprendere azioni legali contro Israel:un emendamento alla legge sugli illeciti civili approvato dalla Knesset nel 2012 ha introdotto forti impedimenti per l’accesso ai tribunali israeliani e l’ottenimento di risarcimenti da parte delle vittime civili palestinesi colpite da azioni militari israeliane a Gaza, esentando di fatto lo Stato dal pagare danni a persone residenti in un territorio al di fuori di Israele e dichiarato "territorio nemico” con decreto governativo.

Uomini e donne, giovani e bambini rimati feriti da proiettili sparati dal confine, paralizzati a vita, o uccisi anche in assenza di scontri, si sono visti finora negati la giustizia, un diritto insabbiato da spesso ingiustificati motivi di "sicurezza” se non dal silenzio.

Il ricordo di Rachel Corrie resta vivo, tra gli amici e gli altri volontari che hanno scelto questo modello di solidarietà, di attivismo non violento, di resistenza pacifica all’occupazione militare, nelle strade aride e che ancora portano segni della distruzione ai confini di Rafah. 

Nena News

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