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Stati Uniti e Israele: la santificazione di Israele obiettivo costante della NATO (Parte 2/2)

23:36 - February 03, 2023
Notizie ID: 3488561
Iqna - . Le guerre incrociate degli Stati Uniti in Iraq per conto di Israele, dal 2003, la guerra di Israele in Libano contro Hezbollah per conto dell’America, nel 2006, costituiscono illustrazioni perfette della centralità di Israele nella strategia occidentale

Stati Uniti e Israele: la santificazione di Israele obiettivo costante della NATO (Parte 2/2)

 

Madaniya.info. Di Renè Naba. Le guerre incrociate degli Stati Uniti in Iraq per conto di Israele, dal 2003, la guerra di Israele in Libano contro Hezbollah per conto dell’America, nel 2006, costituiscono illustrazioni perfette della centralità di Israele nella strategia occidentale. (Da InvictaPalestina.org).

Capitolo 2 – La divisione del Fronte Arabo.

Al di là di questo episodio, la santificazione di Israele passerà attraverso il mantenimento del Mondo Arabo in una forma di balcanizzazione, in una strategia volta alla disgregazione dell’unità araba da parte dell’Occidente.

Il Patto di Baghdad.

Patto il cui nome ufficiale era “Trattato di Organizzazione del Medio Oriente”, fu stipulato il 24 febbraio 1955 tra Iraq, Turchia, Pakistan, Iran e Regno Unito, a cui si unirono gli Stati Uniti nel 1958. Un’alleanza di grande perversità in quanto raggruppava un Paese arabo, l’Iraq, con potenze non arabe: l’Iran sciita imperiale e la Turchia sunnita, ma pur sempre membro della NATO con le due maggiori potenze del Patto Atlantico. Il Patto di Baghdad ha reso obsoleto il Patto di Difesa Comune Arabo.

1956 – Aggressione tripartita di Suez.

Guidata dalle due potenze coloniali del Medio Oriente, Regno Unito e Francia, e dalla loro creatura Israele contro l’Egitto, a questa prima operazione militare congiunta israelo-occidentale contro il mondo arabo, destinata a punire un leader nazionalista arabo, Gamal Abdel Nasser, colpevole di aver cercato di recuperare la sua principale ricchezza nazionale, il Canale di Suez, seguiranno altre spedizioni punitive.

Le guerre incrociate degli Stati Uniti in Iraq per conto di Israele, dal 2003, la guerra di Israele in Libano contro Hezbollah per conto dell’America, nel 2006, costituiscono illustrazioni perfette della centralità di Israele nella strategia occidentale.

Due date storiche traumatiche: 5-6 giugno e 11-13 aprile .

La battaglia nell’ordine simbolico è di fondamentale importanza nel contesto della guerra totale che Israele sta conducendo, perché determina, al di là di una lettura lineare attuale, l’esito di una lotta capitale, la battaglia per la conquista dell’immaginario arabo e la conseguente sottomissione psicologica dei suoi avversari.

In questa guerra psicologica, due date hanno una funzione traumatica che Israele usa regolarmente contro i suoi nemici alla maniera di un’umiliazione ripetitiva per interiorizzare l’inferiorità araba e infondere nell’opinione pubblica l’idea di una superiorità israeliana permanente e quindi di una conseguente inferiorità araba.

La prima data traumatica è quella della ricorrenza storica del 5-6 giugno 1967: in questa data si concentra infatti la Terza guerra arabo-israeliana del giugno 1967, la distruzione della centrale nucleare irachena di Tammuz, il 5 giugno 1981, ordinata da Menachem Begin per testare le reazioni del nuovo Presidente socialista francese François Mitterrand, il lancio dell’Operazione “Pace in Galilea” contro il Libano, il 6 giugno 1982, volta a spianare la strada all’elezione alla presidenza libanese del leader falangista libanese Bachir Gemayel, infine il 6 giugno 2004 la pesante condanna di Marwane Barghouti.

La guerra del giugno 1967, la prima guerra preventiva della storia contemporanea, permise a Israele, già all’epoca prima potenza militare nucleare del Medio Oriente e non “il piccolo Davide che lottava per la sua sopravvivenza contro un Golia arabo”, impadronirsi di grandi aree del territorio arabo (il settore orientale di Gerusalemme, la Cisgiordania, la Striscia di Gaza, le alture del Golan siriano e il deserto egiziano del Sinai) e per ostacolare l’avanzare del nazionalismo arabo. Ma allo stesso tempo ha accelerato l’emergere della questione palestinese e della lotta nazionale palestinese che rimane ancora oggi, 42 anni dopo, la principale sfida per Israele.

La guerra del Libano del giugno 1982, culminata in un assedio di 56 giorni della capitale libanese, causò la perdita del santuario libanese dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLO) e la partenza forzata di Yasser Arafat da Beirut, dando vita allo stesso tempo ad una resistenza nazionale libanese armata simboleggiata da Hezbollah (il Partito di Dio) che avrebbe costretto diciotto anni dopo l’invincibile esercito israeliano ad una ingloriosa ritirata dal Libano meridionale, il 25 maggio 2000, il primo disimpegno militare israeliano da un territorio arabo non accompagnato da un trattato di pace.

L’alleato degli israeliani è salito al potere, ma per una presidenza di breve durata. Bachir Gemayel verrà ucciso in un attentato alla vigilia del suo insediamento e gli israeliani travolti dai massacri dei campi palestinesi di Sabra-Chatila che seguirono al suo assassinio.

L’altra data traumatica della guerra psicologica antiaraba condotta da Israele è quella dell’11 e 13 aprile, ricorrenza di una triplice commemorazione: la prima, quella dell’incursione israeliana nel centro di Beirut, 11 aprile 1973, che ha portato all’eliminazione di tre importanti leader dell’OLP Kamal Nasser, il suo portavoce, Abou Youssef Al-Najjar, suo Ministro dell’Interno, nonché Kamal Adwane, il capo delle organizzazioni giovanili. La seconda, quella dello scoppio della Guerra Civile Libanese tra fazioni due anni dopo, il 13 aprile 1975. La terza, quella del bombardamento aereo americano su Tripoli (Libia), il 13 aprile 1986, e la successiva imposizione del boicottaggio della Libia da parte delle Nazioni Unite il 13 aprile 1992.

La condanna di Marwane Barghouti, uno dei pochi leader palestinesi bilingue arabo-ebraico, ha eliminato dalla vita politica attiva uno dei rappresentanti più brillanti del futuro palestinese, l’antitesi di burocrati corrotti dalla rappresentatività problematica. Ma risponde soprattutto a una funzione traumatica. D’altro canto, però, il verdetto è carico di conseguenze in termini di immagini per gli israeliani, ora gravati da un prigioniero carismatico e galvanizzante. Vittimizzandolo, gli israeliani lo hanno trasformato in un simbolo e i carcerieri israeliani sono così diventati, agli occhi dei suoi numerosi proseliti nel mondo, essi stessi ostaggio del loro prigioniero palestinese. Con l’ulteriore svantaggio di un simbolo ingombrante da gestire.

Il caso a volte favorisce le coincidenze, che appaiono allora come un segno del destino. Marwane Barghouti è stato condannato all’ergastolo il giorno della morte dell’ex Presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan, lo stesso uomo che aveva detto “Addio all’OLP”, il giorno in cui i Fedayn furono evacuati dalla capitale libanese nel settembre 1982. In 25 anni i Fedayn si trasformarono nei Mujaheddin e la causa nazionale palestinese sopravvisse a Ronald Reagan. Un segno del destino?

In 42 anni, le ripetute incursioni israeliane hanno quindi avuto esiti contrastanti, a volte addirittura contraddittori rispetto all’obiettivo prefissato. Durante tutto questo conflitto, Israele ha fatto in modo di assicurarsi il controllo della narrativa mediatica e il monopolio della compassione universale per le persecuzioni di cui gli ebrei furono vittime nel 19° e 20° secolo in Europa.

Ma la distruzione della Linea Bar Lev da parte degli Egiziani nella Guerra d’Ottobre del 1973 liberò gli Arabi dalla paura dello Stato Ebraico, e, con gli attentatori suicida, le bombe umane che fecero 914 morti da parte israeliana durante la Seconda Intifada palestinese (2000-2003), la paura è ormai equamente distribuita tra le due parti, mentre, contemporaneamente, i massacri dei palestinesi di Sabra e Chatila, nel 1982, hanno infranto il mito della “purezza delle armi israeliane” e il disimpegno militare dal Libano meridionale, il “mito dell’invincibilità israeliana”.

Il processo storico non può essere ridotto a processo mediatico. Israele, durante il primo mezzo secolo della sua indipendenza (1948-2000), ha vinto tutte le guerre che lo hanno opposto agli eserciti arabi convenzionali, ma la tendenza si è invertita dall’inizio del 21° secolo, con l’attuazione della strategia della guerra asimmetrica. Da allora tutti i suoi scontri militari con i suoi avversari arabi si sono conclusi con battute d’arresto militari, sia in Libano nel 2006 contro lo sciita libanese Hezbollah, sia nel 2008 a Gaza, in Palestina, contro il sunnita palestinese Hamas.

Gli Accordi di pace di Camp David.

Gli Accordi di pace di Camp David si inseriscono in questa strategia tesa a spezzare un Fronte Arabo Unito nel quadro di una soluzione complessiva del conflitto arabo-israeliano favorendo intese parziali con ciascuno dei Paesi arabi presi separatamente in modo da relegare la soluzione del conflitto a data indefinita.

Si può affermare che Camp David è stato un enorme inganno e il trattato di pace egiziano-israeliano, una maledizione per l’Egitto, il Mondo Arabo e probabilmente per la pace regionale.

Disattendendo le regole elementari della polemologia (lo studio della guerra e dei fenomeni che la accompagnano, dal punto di vista militare o sociologico-politico), il trattato egiziano-israeliano ruppe l’unità del fronte dei “Paesi campo di battaglia” (Egitto, Siria, Giordania, Palestina-OLP, Libano), concretizzatosi nella guerra del 1948, proprio come nella spedizione di Suez nel 1956 e la Guerra d’Ottobre nel 1973 e raggiunse pienamente l’obiettivo di fondo della diplomazia israelo-americana.

Estromettendo l’Egitto, ha liberato il fianco meridionale di Israele e ha spostato la guerra verso Nord, prolungandola contro il Libano e la Palestina, riducendo ulteriormente il bilancio militare di Israele per la tecnologia avanzata. Nella sua disperata corsa alla pace, Sadat si rifiutò di vedere il cappio che la diplomazia occidentale aveva teso intorno al collo dell’Egitto, illuso com’era dall’idea di scrivere la storia, abbagliato dai riflettori della fama, in una solitaria ricerca della gloria condivisa con uno dei leader della destra più radicale di Israele, la mente dietro l’invasione del Libano nel 1982, Menachem Begin.

Firmato senza riguardo per il fedele alleato siriano, il trattato del 1979 fu seguito dalla firma di un trattato simile da parte della Giordania, due accordi che avrebbero lasciato la Siria tragicamente isolata di fronte a Israele.

Damasco romperà il suo isolamento attraverso un’alleanza inversa con l’Iran e attraverso il suo desiderio di mantenere sotto il suo controllo il territorio libanese e palestinese, sullo sfondo di manovre diversive regionali che porteranno alla guerra tra fazioni libanesi del 1975-1990. Dei “trattati di pace” insomma, che hanno scatenato una follia omicida durata quindici anni.

Un approccio arabo unito avrebbe evitato che Israele approfittasse a suo vantaggio delle contraddizioni arabe. Questa partita è stata giocata alternando offerte di trattativa ora alla Siria ora ai palestinesi, in un approccio ritardante volto a completare l’insediamento delle alture del Golan e della Cisgiordania nonché la giudaizzazione della città santa di Gerusalemme. Ma all’Egitto non importava.

Il trattato di Pace, una nozione fuorviante.

La pace (pax in latino) di solito si riferisce a uno stato di calma o tranquillità come l’assenza di disordini, tumulti o conflitto. A volte è considerato un ideale. Sinonimo di calma e concordia, si riferisce a una forma di tranquillità interiore che regna negli Stati, nelle famiglie, nelle società e suggerisce la riconciliazione, una tranquillità dell’anima, del cuore, una situazione pacifica di uno Stato, di un popolo, di un regno, di una famiglia.

Con questa definizione, la parola pace è fuorviante se applicata alla pace tra Egitto e Israele.

Anzi, qui è piuttosto l’equivalente di sottomissione, poiché è vero che la pace di Camp David non significò la cessazione delle ostilità, ma il loro trasferimento in altre aree, in particolare in Libano, Iraq, Siria, Tunisia, Sudan e Palestina, con l’appoggio più o meno tacito e a volte la rassegnazione del più grande Stato arabo.

Celebrato in tutto il campo occidentale come preludio di una nuova era di pace e prosperità nella zona intermedia tra Asia ed Europa, il trattato sarà vissuto a livello di opinione araba e musulmana come un susseguirsi di rifiuti e umiliazioni per l’autostima nazionale dell’Egitto.

Sul piano strategico, le flagranti provocazioni israeliane sono state percepite come un indebolimento della sicurezza dello spazio nazionale arabo.

Analizziamo: il Trattato di Washington del 21 marzo 1979 fu seguito dall’annessione di Gerusalemme come ” capitale eterna e indivisibile dello Stato Ebraico” il 30 luglio 1980; dalla distruzione della centrale nucleare irachena di Tammuz il 7 giugno 1981 e la successiva annessione delle alture siriane del Golan il 14 dicembre 1981; prima di culminare nell’invasione israeliana del Libano il 5 giugno 1982, l’assedio di Beirut e la distruzione delle infrastrutture dell’OLP in Libano.

Una tregua si è osservata durante il processo di reintegrazione dell’Egitto nel campo arabo nel 1984, a seguito della guerra iracheno-iraniana, per poi riprendere ancora più vigorosamente con un susseguirsi ininterrotto di operazioni vessatorie proprio contro coloro che erano i “fratelli d’armi” degli egiziani: attacchi contro il quartier generale di Yasser Arafat, a Tunisi nell’ottobre 1985; poi l’assassinio del suo braccio destro, Abu Jihad (alias Khalil Al Wazir); il capo militare del quartier generale palestinese, sempre a Tunisi il 15 aprile 1988; e il capo dei servizi segreti palestinesi Abou Iyad (alias Salah Khalaf), sempre a Tunisi il 14 gennaio 1991; infine gli omicidi extragiudiziali di due dirigenti di Hamas, lo Sceicco Ahmad Yassin e Abdel Aziz Al-Rantissi, decapitando la dirigenza palestinese dei suoi leader più capaci e rappresentativi, spianando la strada alla promozione di una personalità senza rilievo, il burocrate Mahmoud Abbas.

Come una lunga litania, come un lungo lamento dell’impotenza araba, gli attacchi israeliani si susseguiranno a ritmo serrato, con il pretesto della “Guerra al Terrorismo”: Seconda Guerra del Libano nel 2006, guerra contro l’enclave palestinese di Gaza nel 2008, attacchi aerei per distruggere una centrale nucleare nel Nord della Siria il 6 settembre 2007, attacco aereo contro il Sudan nel gennaio 2009, costruzione del muro dell’Apartheid, progressiva giudaizzazione di Gerusalemme.

All’ombra della pace egiziana, la macchina da guerra israeliana non avrà conosciuto né tregua né sosta, ma è avanzata nella strisciante colonizzazione dell’intera Palestina.

All’ombra del trattato di pace, la Palestina, nelle sue due parti, Cisgiordania e Gaza, è diventata negli anni la più grande prigione a cielo aperto del mondo, il più grande campo di concentramento, con un muro di separazione in cemento armato, che circonda e rinchiude quasi tre milioni di persone, decine di città e villaggi. Un muro tre volte più lungo del Muro di Berlino e alto il doppio, alto otto metri e lungo settecentocinquanta chilometri.

La divisione del Golfo dal Mediterraneo: la pace in cambio del sostegno arabo a una politica bellicista occidentale

Al di là della teoria del vuoto, la strategia occidentale ha sempre cercato di operare una doppia divisione:

• Separare la zona del Golfo dalla zona mediterranea del mondo arabo, vale a dire la zona di prosperità e benessere dalla zona disagiata, separare la sua riserva petrolifera dalla turbolenza demografica sfrenata del Mediterraneo.

• Dissociare i problemi del Golfo Arabo-Persico dal conflitto arabo-israeliano, usando la soluzione della questione palestinese come merce di scambio per ottenere il sostegno arabo alla sua politica bellicista nei confronti del Mondo Arabo, nonostante l’iniziativa di subordinare la soluzione della questione palestinese alla soluzione dei problemi più generali del Medio Oriente.

La Conferenza di Madrid del 1990: una parata diplomatica senza futuro

La conferenza di pace di Madrid si tenne nel novembre-dicembre 1990, sulla scia della prima guerra contro l’Iraq.

È apparsa retrospettivamente come una bella parata diplomatica senza futuro. La prima svolta significativa sulla via della soluzione del conflitto israelo-palestinese è avvenuta con gli Accordi di Oslo nel 1993. È potuta accadere perché è stata operata, di nascosto, tra israeliani e palestinesi, all’insaputa degli imperativi della diplomazia americana, non per uno sfogo di generosità israeliana verso i palestinesi, ma per il semplice motivo che l’allora Primo Ministro israeliano Yitzhak Rabin era giunto alla conclusione, alla fine della Prima Intifada, che questo conflitto a bassa intensità stava dissanguando l’economia israeliana in una lenta emorragia, che ha alterato l’immagine di Israele, mentre l’occupazione ha corrotto la moralità della gioventù israeliana.

Gli Accordi di Oslo prevedevano la costituzione di uno Stato palestinese entro cinque anni. La tabella di marcia di George Bush, varata nel 2003 all’indomani dell’invasione americana dell’Iraq, prevedeva anche la costruzione di uno Stato palestinese entro cinque anni, vale a dire nel 2008. L’ultimo sforzo di Condoleeza Rice in Medio Oriente, tre viaggi nel primo trimestre del 2007, mirava ad alleviare la pressione anti-americana sull’Iraq.

Il pericolo sciita.

Nel frattempo, la diplomazia occidentale si è posta un obiettivo diverso: combattere il pericolo sciita, generato dagli americani decapitando i due avversari ideologici, e sunniti, del rivoluzionario Iran sciita: i Talebani, in Afghanistan nel 2001, e Saddam Hussein nel baathista e laico Iraq, nel 2003. L’Iran è diventato una temuta potenza regionale non tanto come risultato di una politica voluta, ma come effetto inatteso a seguito dell’irregolare politica americana. Combattendo anche la minaccia nucleare iraniana causata dalla preponderanza militare israeliana e dalla sua egemonia regionale a causa del suo possesso di armi atomiche e del suo rifiuto di sottoporsi ai controlli previsti dal diritto internazionale.

L’Islam sunnita, sotto l’egida del Presidente egiziano Gamal Abdel Nasser e successivamente di Yasser Arafat, capo dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, è stato demonizzato quando si è identificato con la lotta nazionalista araba per il ripristino dei diritti nazionali palestinesi.

Sia Nasser che Arafat sono stati trattati come degli “Hitler” dai media israeliani e dai loro alleati occidentali, mentre gli sciiti sotto l’autorità dello Scià dell’Iran sono stati citati come un modello di modernità e integrazione occidentale. Ora che l’equazione è stata invertita, i leader arabi sunniti, alleati dell’Occidente, si vedono premiati con un termine lusinghiero “l’asse della moderazione”, nonostante alcuni dei leader più retrogradi del pianeta facciano parte di questa alleanza.

È stato Israele a introdurre la corsa agli armamenti atomici in Medio Oriente cinquant’anni fa, ma è oggi considerato l’Iran l’unico pericolo nucleare nell’area.

Furono quindici i sauditi a prendere parte agli attacchi aerei dell’11 settembre 2001 contro obiettivi americani e fu l’Iraq baathista e laico ad essere sospettato di collusione con l’organizzazione fondamentalista sunnita Al Qaeda, anche se era di dominio pubblico che l’organizzatore degli attentati dell’11 settembre 2001 è il delegato comune di sauditi e americani Osama Ben Laden.

Questa strana logica illustra il disegno divisorio occidentale nei confronti del mondo arabo-musulmano, una logica variabile in funzione degli interessi occidentali. Un discorso che spiega ampiamente le battute d’arresto occidentali in terra araba. Per inciso, segnaliamo che Israele è l’unico Stato al mondo a voler designare preventivamente i propri interlocutori, delimitando preventivamente l’agenda, anticipando preventivamente i propri esiti, senza che questo susciti la minima critica nei circoli dirigenti occidentali, immersi in una sorta di letargo amnesico per tutto ciò che riguarda la questione palestinese.

La tentazione monarchica negli anni ’90: i casi di Iraq e Libia.

Negli anni ’90, sulla scia dell’implosione del blocco sovietico e del trionfo dell’islamismo politico, gli strateghi occidentali hanno contemplato di procedere a una restaurazione monarchica nei Paesi arabi produttori di petrolio, alleati dell’URSS, principalmente l’Iraq, dissanguato al termine di una guerra decennale contro l’Iran per conto delle petromonarchie, ma fatale per il regime baathista, e la Libia, stremata da una rovinosa guerra contro la Francia interposta dal Ciad.

Una restaurazione monarchica ha permesso alle monarchie arabe di detenere la maggioranza assoluta all’interno della Lega Araba, organo decisionale dell’organismo pan-arabo, e quindi un allineamento, sotto l’apparenza di un voto democratico, ai dettami dell’Occidente.

Per ripristinare lo status quo precedente: la prima guerra arabo-israeliana, nel 1948, causò la caduta della monarchia egiziana, nel 1952; l’aggressione tripartita franco-anglo-israeliana a Suez nel 1956, la caduta della monarchia irachena nel 1958; La guerra del giugno 1967, la caduta della monarchia libica.

La guerra d’indipendenza nello Yemen, condotta con l’appoggio di Gamal Abdel Nasser, pose fine al Protettorato britannico ad Aden (Yemen meridionale) e all’Imamat (Governatorato) nello Yemen settentrionale.

Mancando il carisma dei pretendenti al trono hashemita dell’Iraq e Senoussi della Libia, il progetto fu abbandonato e ripreso un decennio dopo, in altra forma. In due tempi: la Libia è stata inserita per la prima volta dagli Stati Uniti, nel 1989, nell’elenco dei Paesi sostenitori del terrorismo, dopo l’attentato di Lockerbie e isolata, e l’Iraq sottoposto a sanzioni nel 1990 in seguito all’invasione del Kuwait.

Dieci anni dopo, nel 2003, l’Iraq fu invaso dagli Stati Uniti, come rappresaglia per gli attentati terroristici contro i simboli dell’iperpotenza americana dell’11 settembre 2001, e in sostituzione dell’Arabia Saudita, con il falso pretesto del suo possesso di armi di distruzione di massa; E la Libia, otto anni dopo, nel 2011, in nome del “dovere dell’intervento umanitario”.

Dominique Strauss-Kahn, l’ex grande sapientone socialista dell’economia francese, aveva già spronato, nel suo periodo di massimo splendore, l’opinione internazionale sull’imperiosa necessità di prendere di mira l’Iran e non l’Iraq, secondo la strategia israeliana.

“Si vede che gli americani hanno sbagliato bersaglio: la minaccia non veniva dall’Iraq, ma dal suo vicino persiano. La politica che si sta conducendo oggi in Iran sotto la guida di Ahmadinejad ha molte espressioni di totalitarismo che, come tali, devono essere combattute”.

A questo proposito, è per me un grave errore aver affermato, come hanno fatto Jacques Chirac e il suo Ministro degli Esteri, Philippe Douste-Blazy, che l’Iran abbia svolto “un ruolo stabilizzatore” nella regione. Ciò crea confusione sulla reale natura di ciò che è l’attuale regime iraniano. Ciò equivale a inviare un messaggio errato a un Paese che fa ampio uso della propria capacità di fare danni, come vediamo in Libano tramite Hezbollah, in Iraq o con il ricatto nucleare che cerca di esercitare. “Si vede che gli americani hanno sbagliato bersaglio: la minaccia non veniva dall’Iraq, ma dal suo vicino persiano”.

2008 – L’Unione per il Mediterraneo.

Il progetto “Unione per il Mediterraneo” di Nicolas Sarkozy voleva essere un progetto grandioso il cui obiettivo finale era quello di fare del Mediterraneo uno dei cardini del 21° secolo. Il progetto risponderebbe a tre obiettivi fondamentali in conformità con la strategia neoconservatrice americana.

Primo obiettivo: Unire arabi e israeliani nello stesso spazio di cooperazione, che presuppone la preventiva soluzione del conflitto arabo-israeliano, in particolare la componente palestinese, vale a dire la questione di Gerusalemme e la costruzione di uno Stato palestinese vitale, e, ultimo ma non meno importante, il rapporto con la Siria. Questo progetto è morto nel suo primo anno di attuazione a causa della ripresa delle ostilità tra Israele e Hamas nella Striscia di Gaza.

Collateralmente, la collaborazione all’interno di un forum mediterraneo di Turchia e Israele, le due principali leve della strategia americana in Medio Oriente, tendeva anche a indebolire l’unione araba in una struttura proteiforme con l’effetto di ridurne l’omogeneità e di porla in una situazione minoritaria rispetto ai suoi altri alleati.

Successivamente tenderebbe anche a sostituire Israele con l’Iran come nuovo nemico ereditario degli arabi, esonerando gli occidentali dalla propria responsabilità nella tragedia palestinese, banalizzando la presenza israeliana nell’area a danno del vicino millenario degli arabi, l’Iran, il cui potenziale nucleare è successivo a sessant’anni di minaccia nucleare israeliana ed espropriazione palestinese.

La Primavera Araba degli anni 2010.

La Primavera Araba in relazione al conflitto israelo-palestinese: il Sud Sinai, la Hong Kong degli arabi.

La Primavera Araba aveva a che fare con la risoluzione del conflitto arabo-israeliano. Il progetto della Rand Corporation, dal nome in codice C-C C (Dal Confronto al Contenimento), prevedeva l’assegnazione di una parte del deserto del Sinai all’insediamento di palestinesi della diaspora nel Sud della penisola. Questo progetto doveva essere completato con la creazione di una zona franca a Est di Suez e con ingenti investimenti per fare di questa zona di demarcazione tra Israele ed Egitto la Hong Kong degli arabi.

Inoltre, la strategia americana, fin dal 2007, ha puntato ad affidare la gestione dell’islam politico ai Fratelli Musulmani affinché la confraternita assuma il ruolo di guida della corrente che si proclama islam moderato e si impegni in una risoluzione o ridimensionamento della questione palestinese.

Il suo obiettivo di fondo mascherava una guerra di predazione economica di un Occidente in crisi sistemica del debito.

La Primavera Araba è arrivata alla fine di un disastroso decennio di “Guerra al Terrorismo”, sfociata negli interventi americani in Afghanistan (2001) e Iraq (2003), con le loro costose ripercussioni sulle finanze degli Stati Uniti. La conseguente crisi del sistema bancario statunitense (2008) ha comportato una perdita di capitalizzazione di mercato di circa 25 trilioni di dollari (18 milioni di miliardi di euro).

Unita alla crisi sistemica del debito europeo, la carneficina di Oslo del luglio 2011, carneficina commessa da un europeo, in un Paese europeo contro europei, ha costituito un ripudio assoluto della “Guerra al Terrorismo”.

Quella che è conosciuta come la “Primavera Araba” è in realtà una guerra di predazione delle economie arabe, con lo smembramento del Sudan, principale fornitore energetico della Cina, attraverso il Sud Sudan, lo smembramento della Libia, principale fornitore di petrolio della Russia, e l’annientamento della Siria, alleato permanente di Russia e Cina nel Mondo Arabo. Libia e Siria, due Paesi peraltro senza debito estero.

Dono compensativo alla Turchia per il rifiuto della sua ammissione all’interno dell’Unione Europea, la guerra siriana ha costituito una guerra di sostituzione all’Iran, al fine di interrompere le rotte strategiche di rifornimento di Hezbollah, nel Sud del Libano, a tutt’oggi invincibile contro Israele.

Con i cinque veti contrari da Russia e Cina al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, la guerra in Siria ha posto fine all’unilateralismo occidentale nella gestione degli affari mondiali e ha favorito l’emergere di un mondo multipolare con l’ascesa al potere dei BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica).

Se la guerra in Siria è stata una guerra per procura contro l’Iran al fine di interrompere l’approvvigionamento strategico di Hezbollah, attraverso la Siria, il suo effetto collaterale è stato quello di distogliere l’attenzione dall’annessione della Palestina da parte di Israele con la complicità degli Stati occidentali.

Lo Stato Ebraico sta infatti cercando di formare una cintura di Stati vassalli attorno al suo perimetro, come dimostra lo smembramento del Sudan con la costituzione di un’enclave filo-israeliana nel Sud Sudan, sul corso del Nilo, e un’enclave filo-israeliana nel Kurdistan iracheno.

Uno schema simile era previsto in Siria nel settore di Raqqa, ma il cui risultato è stato vanificato dalle battute d’arresto militari della coalizione islamo-atlantica.

In tutta questa sequenza, Israele ha moltiplicato gli argomenti per rifiutare di accettare la costituzione di uno Stato palestinese, avanzando come pretesto che tale Stato, anche se con sovranità limitata, sarà, talvolta, una “base sovietica”, talvolta una “base islamista”, infine “una base iraniana”.

Parallelamente, Beirut e Algeri, le due basi dei movimenti di liberazione nel decennio 1960-1970, sono implose in una guerra civile, il Libano per quindici anni (1975-1990), durante il processo di pace israelo-egiziano; L’Algeria durante il decennio oscuro degli anni ’90, in coincidenza con l’implosione del blocco sovietico e l’ascesa dell’islamismo politico filo-saudita-americano.

Renè Naba è un giornalista-scrittore, ex capo dell’Arab Muslim World (Mondo Arabo Musulmano) al servizio diplomatico dell’AFP, poi consigliere del direttore generale di RMC Middle East, capo dell’informazione, membro del gruppo consultivo dell’Istituto Scandinavo dei Diritti Umani e dell’Associazione di Amicizia Euro-Araba.

 

Traduzione di Beniamino Rocchetto per Invictapalestina.org

 

 

 

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