Il giornale americano The New York Times,in un articolo pubblicato in
occassione dell’inizio del pellegrinaggio annuale islamico alla Mecca,ha analizzato
i fatti che hanno portato alla strage di Mina dell’anno scorso,quando migliaia
di persone hanno perso la vita proprio durante i riti del pellegrinaggio nella
citta’ santa islamica.
Il New York Times scrive che a distanza di un anno dalla carneficina le autorita’ saudite non hanno ancora fornito spiegazioni esaustive sui motivi e sulle circostanze che hanno portato alla strage,cosiccome non ci sono ancora cifre ufficiali credibili sul numero dei morti.
Secondo l’Associated Press,sommando i dati delle vittime accertate forniti dai 36 paesi che hanno avuto cittadini periti nella strage,il numero dei morti sarebbe intorno alle 2400(duemilaquattrocento),ma stranamente le autorita’ saudite non sono andati oltre il dato iniziale di settecento morti.Alcune fonti sono arrivate ad ipotizzare addirittura cifre come settemila morti,mettendo nel conto anche le vittime che non sono state mai identificate,e che sarebbero state sepolte dai sauditi in fosse comuni.
Nell’articolo si raccontano i fatti di quel giorno attraverso l’esperienza
personale di alcuni sopravvissuti alla strage.
Rashid Sedighi,42 anni,cittadino americano di origini indiane residente ad
Atlanta,e’ una delle persone che il 24 Settembre del 2015 e’ scampato alla morte
durante la calca creatasi all’altezza dell’incrocio tra la strada 204 e la 223,nella
zona di Mina.
L’uomo racconta che intorno alle ore 6:30 del mattino,lui,il cognato,e la moglie
di quest’ultimo hanno lasciato la zona delle tende dove hanno passato la notte
in preghiera per recarsi a piedi alla zona di Mina.Ad un certo punto,per motivi
ancora sconosciuti,le forze di sicurezza saudite hanno chiuso la tratta che i
fedeli abitualmente utilizzano per raggiungere Mina,costringendoli ad
incanalarsi in una via secondaria.
Dopo alcuni minuti,racconta Rashid,si e’ ritrovato in mezzo ad una ressa,che si
faceva ogni secondo piu’ soffocante.
A Rashid sono stati necessari 15 minuti per districarsi dalla folla,ed uscire
miracolosamente indenne dalla ressa.Dopodiche’ si accorge della mancanza dei
suoi due parenti,che si mette a cercare senza successo.Si reca in tutti gli
ambulatori e gli ospedali della zona,ma non trova traccia di loro.Arriva ad un
capannone dove sono raccolti i cadaveri delle vittime,ma le autorita’ non
accettano di verificare l’identita’ dei morti in quel momento.
A quel punto decide di disdire il biglietto di ritorno negli Usa per cercare il cognato e la moglie,insieme ai famigliari di questi,che avevano raggiunto Rashid dall’America.Continuano le ricerche per giorni seguendo le istruzioni delle autorita’ saudite,ma senza successo.Ad un certo punto viene detto loro che i nomi delle vittime sono stati trasmessi al consolato indiano,ma una volta li non trovano i nomi dei loro parenti.Nemmeno negli obitori trovano traccia dei dispersi,finche’ scoprono che il giorno dopo la strage,il governo saudita ha seppellito in fretta e furia,forse per nascondere la reale portata della tragedia, un numero imprecisato di corpi in fosse comuni,con la scusa di evitare problemi sanitari.
Rashid Sedighi
non e’ l’unico ad aver avuto un’esperienza del genere.Storie come questa dopo
la strage di Mina erano la norma.
Ad esempio Seyyed Shahzad Azhar,cittadino pakistano che ha perso in quel
tragico giorno la madre ed il fratello,ha raccontato al New York Times di aver
avuto conferma della morte della madre,solamente dopo 9 mesi dal fatto tramite l’esame
del DNA.
Iqna-E' autorizzata la riproduzione esclusivamente citando la fonte